Non ho molta voglia di raccontarvi com'è la Cuvee de Tomme. Per me è una birra del cuore. Che poi sia anche una delle migliori produzioni americane, quindi del mondo, dovrebbe bastare. La prima medaglia la vinse al Great American Beer Festival del 2000, quando Tomme Arthur era ancora il birraio di Pizza Port Solana Beach e la barricaia era composta da qualche botte, non il migliaio di oggi. Come questa produzione possa aver influenzato la maturità della Reinessance Americana e l'innovazione contemporanea non sta a me, che sono un italiano, dirlo. Quel che è certo è che questa birra, riprendendo la lezione delle acide delle Fiandre Occidentali del Belgio, Rodenbach e discepoli per capirci, divenne presto un mito, un termine di riferimento, un esempio da seguire insieme alla Supplication di Russian River. Segnò una via in America e oggi sappiamo quanto fu feconda, non solo per loro, ma anche per l'Europa: l'onda lunga dell'avanguardia americana è partita spesso ispirandosi ad alcuni stili europei quasi dimenticati, del Belgio in particolare, per poi tornare indietro come uno tsunami, ispirandoci a nostra volta.
Quando eravamo giovani - sì, è una citazione, californiana - e il newsgroup era ancora vivo, si fantasticava leggendo le parole di Kuaska che raccontava di questa meravigliosa birra alle ciliegie fatta sulle rive dell'Oceano Pacifico. Un giorno l'aereo l'hai preso per davvero. E siccome la California è la terra promessa e San Diego il luogo in cui vorresti vivere, fosse solo perché di turistico c'è poco e niente se non qualche chilometro di spiagge, un clima formidabile tutto l'anno, una qualità della vita ineguagliabile e soprattutto un cinquantina - o forse più, oramai ho perso il conto - di birrifici in tutta la contea, quell'aereo l'hai poi preso un altro paio di volte. Non saranno le ultime.
Sei così matto che anche senza Google ti ricordi la via da impostare sul navigatore, Mata Way a San Marcos, e ti ricordi così bene quel parcheggio periferico un po' anonimo davanti ai capannoni. Tomme non è esattamente un espansivo, ma non te ne sei mai uscito a mani vuote. L'ultima volta proprio questa ti sei infilato in valigia, la Cuvee che porta il suo nome. Ci eri andato senza fanfare l'ultimo giro, a farti i tuoi assaggi senza l'ansia di un appuntamento, lui stava parlando con un avventore ubriaco, un americano che lavora in Australia.
La prima volta la taproom non era ancora attiva e ci stese alle 11 di mattina con una girandola di assaggi di tutta la sua produzione in una piccola degustazione privata. Grazie alla mia faccia di tolla ce ne andammo con due bottiglie sottobraccio per le quali molti beer geeks ci avrebbero coperti di bigliettoni ma noi, che siamo gente seria, ce le siamo scolate la sera stessa in motel davanti a un taccuino. La seconda volta prima di arrivare mi sono fermato da un pessimo messicano pieno di working class messicana a fare il fondo: un alieno italiano. Lui aveva qualche problema con la moglie, o forse aveva semplicemente di meglio da fare, e mentre si congedava sono riuscito a cogliere col mio inglese della mutua quanto diceva al ragazzo: se vuole assaggiare direttamente dalle botti fate pure. Non volevo fare l'impiastro: ho chiesto di sentirne solo due, proprio due botti di Cuvee, una a fianco dell'altra. Me l'hanno spillata togliendo un chiodo dal legno: due birre completamente diverse. È il blend la chiave di tutto, l'ho tastato con mano. Un'ora dopo ero a evaporare sulla spiaggia di Carlsbad. Due giorni dopo alla taproom di Alesmith si avvicina una ragazza che sorseggia entusiasta una Belgian Ale fenolica. Mi dice: ti ho visto l'altro giorno a San Marcos, ho visto che addirittura ti hanno stappato una Cable Car. "You know people!".
La base della Cuvee de Tomme è la Judgment Day, una possente Belgian Dark Strong Ale prodotta con l'aggiunta di uvetta, che viene poi maturata in botti ex Bourbon e in barrique di rovere francese che hanno contenuto vino. Questa bottiglia ha almeno due anni, è una birra che non teme il tempo per alcolicità, acidità e struttura. È quasi piatta e con bassa carbonazione, il colore tonaca di frate con riflessi rubino. Nel bicchiere con l'ossigenazione diviene cangiante, alternando marasca e vaniglia, cola, chiare note acetiche, prugna e tamarindo, una lieve speziatura del legno. In bocca l'acidità è potente, convivono sensazioni lattiche, acetiche e l'acidità delle ciliegie selvatiche, ma è inserita su un corpo molto ben strutturato e in grado di reggerla. Il frutto è roboante, dona una evidente vinosità ad una birra quasi oleosa. L'apporto del bourbon si fa notare per i sentori vanigliati e la sensazione etilica del distillato, ben incastonata, che aggiunge una nota quasi piccante al palato. Si avverte anche una lieve tannicità. La componente wild è superba: grande la pulizia, l'apporto dei lieviti selvaggi è fedele alla tradizione fiamminga, quindi piuttosto limitato ed esente da off flavours e stallatico.
Birra non semplice per il neofita ma assolutamente colossale, che spadroneggia nel territorio acido con eccezionale ricchezza e profondità. Difficile trovarla in Europa ma non impossibile: qualche tempio birrario è probabile che ne abbia qualcuna nel caveau. Il prezzo è quello che immaginate, ma per l'esperienza una volta tanto si possono anche scucire.