Attualità

Un documentario italiano, che dovreste vedere, racconta il lato oscuro dell'acquacoltura

pubblicata il 27.02.2024

Until the End of the World spiega in modo efficace come una pratica che dovrebbe sfamare il mondo lo stia in realtà affamando. E ci ricorda che il pescato che ci offrono al ristorante, difficilmente è davvero pescato

Ogni anno dagli impianti di acquacoltura nel mondo escono fra i tra i 40 e i 120 miliardi di pesci: non c’è un numero preciso, perché i pesci sono difficili da contare, ma secondo l’Onu si tratta di oltre 120 milioni di tonnellate. Che è un valore impressionante ed è una delle cose che restano nella testa fra le tante e interessanti raccontate nel documentario Until the End of the World.

Il lungometraggio, che dura poco meno di un’ora e che abbiamo potuto vedere in anteprima in vista dell’uscita nei cinema (in programma a marzo), è strutturato come un viaggio, che parte dall’Italia settentrionale e passa da Grecia e Senegal prima di arrivare in Cile, ed è realizzato dallo stesso Francesco De Augustinis che ci aveva aiutati a capire il fenomeno del landgrabbing. Che è un tema fra l’altro molto attuale, viste le proteste degli agricoltori.

I costi nascosti di spigole, orate e salmoni

Qui però non parliamo di quello che avviene sul terreno ma di quello che avviene in acqua. Dell’acquacoltura, cioè. Che è una medaglia che ha tante facce, come emerge con chiarezza guardando Until the End of the World, che racconta alcune cose che non sapevamo e ne conferma altre che già sapevamo: dovrebbe sfamare il mondo ma lo sta affamando, dovrebbe aiutarci a consumare meno pesce ma ce ne sta facendo consumare di più, dovrebbe essere più sostenibile degli allevamenti di mucche, polli e maiali, ma non lo è davvero tanto.

Il documentario è frutto di un lavoro di ricerca durato 3 anni e racconta un’industria forse meno nota di quella della carne ma non meno importante in termini sia economici sia (purtroppo) di impatto ambientale: “L’opera racconta la crescita rapidissima degli allevamenti di pesce, per produrre salmoni, spigole, orate ma anche gamberi, trote e tonni, in diverse regioni del mondo - ha spiegato l’autore - In questo viaggio attraverso 3 continenti abbiamo incontrato realtà molto diverse e tantissime comunità locali, che stanno combattendo ognuna la loro battaglia contro la crescita inarrestabile di questa industria, che spesso minaccia la loro stessa esistenza”.

Questa “crescita inarrestabile” non è casuale, ma frutto di una precisa strategia: secondo la Fao, l’aumento degli allevamenti di pesce doveva e dev’essere un ingrediente fondamentale della cosiddetta Blue Transformation (spiegata qui, in pdf), la strategia dell’Onu per aumentare la produzione globale di cibo con un maggiore ricorso alle risorse marine. Questa è una delle cose che sapevamo: come su Cucchiaio abbiamo scritto più volte, ormai da un decennio il pesce consumato nel mondo (anche in Italia) è per la maggior parte allevato e non pescato. E questo sostegno incondizionato all’allevamento di pesci, oggi sta attirando enormi investimenti su un’industria relativamente nuova, che sta crescendo a dismisura in diverse regioni del mondo. È una cosa buona ma anche è una cosa cattiva, sia perché al momento c’è una notevole disparità fra i vari modi di fare acquacoltura (da quello iper regolato della Norvegia a quelli parecchio più permissivi di Grecia e Cile), sia perché ci sono alcune aree del mondo che ne stanno soffrendo indirettamente le conseguenze.

Che cosa mangiano i pesci che mangiamo?

Uno dei problemi dell’acquacoltura ha a che fare con le risorse necessarie per portarla avanti. Soprattutto con il mangime con cui vengono nutriti gli animali presenti nelle vasche, alcune delle quali ne contengono anche 80-120mila per volta: che cosa mangiano i pesci che mangiamo? Soprattutto altro pesce, insieme con alimenti di origine vegetale. Sembra incredibile, però è così: l’acquacoltura dovrebbe servire al mondo per aumentare il fabbisogno di pesce però le serve altro pesce per funzionare.

Il paradosso è doppio: non solo quello che viene usato per il mangime è pesce assolutamente adatto all’alimentazione umana (come acciughe, sarde, suri, sgombri e cicerelli) ma anche viene sottratto a comunità che di quel pesce hanno vissuto per secoli. Come il documentario racconta in modo efficace, succede soprattutto lungo le coste dell’Africa occidentale, fra Guinea, Senegal, Mauritania e Marocco, i cui mari vengono letteralmente saccheggiati da enormi barche che fanno capo a varie multinazionali, che usano i loro pesci per farli diventare farina per i nostri pesci. Il quadro che viene fuori ricorda molto una certa forma di colonialismo, che è una parola che in effetti ricorre spesso durante il documentario: “L’idea era anche quella di raccontare e mettere in collegamento le vicende di diverse comunità che in diverse parti del mondo stanno combattendo contro l’espandersi degli allevamenti di pesce”, ha confermato De Augustinis. 

Until the End of the World si conclude in Cile (alla fine del mondo, come dice il titolo) perché il problema di dove trovare il mangime per i pesci allevati non si può più ignorare e dunque le aziende stanno cercando soluzioni. Scartata, per il momento, l’ipotesi di usare gli insetti o l’onnipresente soia, lo sguardo si è rivolto verso la Patagonia e le acque gelide che circondano l’Antartide. Perché? Perché sono ricche di krill. Proprio così: il cibo che sta alla base dell’alimentazione di balene e pinguini, come ognuno di noi sa da quando è bambino, sta diventando la nuova fonte di sostentamento degli impianti di acquacoltura del mondo. E chissà se impiegheremo altri vent’anni per capire che non è esattamente una buona idea.

Emanuele Capone

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