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Sa fregula, storia e tradizione in cucina della tipica pasta sarda

pubblicata il 03.11.2022

Un viaggio nel tempo per scoprire da dove viene e come si evolve la fregula, una delle paste sarde più conosciute ma anche più "misteriose". Un cibo estremamente legato alla sua terra e alla sua storia di contaminazioni culturali. 

La Sardegna, dal punto di vista gastronomico, è un continente dove, nelle sue sub-regioni, si affermano preparazioni che si caratterizzano e variano da un luogo all’altro, in relazione alla morfologia del terreno, alle variegate produzioni, e gli eventi storici che si sono succeduti.

Una premessa è d’obbligo: un cibo, in qualsiasi parte del mondo si affermi, non potrà mai essere considerato “originale”, perché è sempre frutto dell’evoluzione di preparazioni precedenti che nel corso del tempo si contaminano, si incrociano e si trasformano.

Sa fregula è una pasta sarda che incuriosisce e stimola interesse per le sue caratteristiche e la sua preparazione (che vi raccontiamo nell'approfondimento Come si fa la fregula sarda e come si cucina), ma spesso le informazioni sul suo conto sono senza fondamento storico e a volte particolarmente confuse.

Nascita ed evoulzione di sa fregula

Sappiamo di certo che la nascita di sa fregula affonda le radici nella storia antica del Mare Nostrum. Il cibo, in genere, nasce sempre da una necessità primordiale, quella di alimentarsi. Inizialmente, è un semplice e naturale bisogno di mangiare, sopperendo con ciò che si possiede. Successivamente, tutto si evolve e si affina, le pietanze si elaborano grazie alla cultura e alla tecnica acquisita nel tempo. Cuocere, condire, marinare, affumicare, seccare, fermentare, cucinare sono procedure e tecniche che hanno avuto la funzione di rendere il cibo commestibile, vicino al gusto desiderato, o conosciuto, o condiviso dalla comunità.

Per preparare sa fregula casalinga, si richiede tanta manualità e sapienza nel combinare gli ingredienti. Si può dar forma a una pasta semplice, “povera”, con semola, acqua e sale; oppure, più ricca, con semola di grano duro, acqua, sale marino sardo, zafferano di Sardegna e uova. Poi, è necessario possedere sa scivedda, contenitore in terracotta smaltata che un tempo era un elemento importante del corredo di nozze.

La procedura per la realizzazione parte dalla macinatura del grano: un tempo erano tante le varietà, oggi si usa prevalentemente trigu arrubbiu, cossu, saragolla, karalis, senatore Capelli. 

Si inizia col versare la semola dentro sa scivedda. A parte, in una ciotola, si versa dell’acqua tiepida, il sale, lo zafferano, l’uovo e si sbatte il tutto con una forchetta. 

Si procede quindi con le seguenti modalità: - si inumidiscono i polpastrelli della mano destra con il preparato della ciotola e si schizza, poi, sulla semola; - si prosegue con lo “sfregare”, in senso orario, con i polpastrelli la semola sul coccio, formando dei granelli - ottenuti i grani nella forma desiderata, e assorbita tutta la semola, si raccolgono. Possono essere consumati subito in brodo come una minestra; oppure, per meglio conservare la pasta, si possono essiccare al sole in canestri di paglia di grano per tutta una giornata. O ancora, per meglio assicurare una buona conservazione o per mancanza di sole, si può tostare la pasta in padella, al forno o sulla brace.

In Sardegna, in genere sa fregula veniva preparata in casa, oggi è preparata dalle aziende artigianali o dalle industrie pastarie. La si usa prevalentemente cotta in brodo, di pecora o di gallina, e condita con formaggio di pecora fresco, acidulo. La tipologia tostata si combina anche con le arselle, o i frutti di mare, in maniera risottata, o con le sole verdure.

Con l’avvento della tecnologia, e della costante domanda di mercato, artigiani e piccole industrie iniziarono sin dagli anni ’50 del secolo scorso a preparare e commercializzare sa fregula. Due - e differenti - furono le tipologie create: quella trafilata in bronzo, adatta per le cotture risottate; e quella più vicina alla tradizione, adatta alle cotture in brodo.

Per meglio capire come si sia evoluto quel casuale impasto di farina e acqua, sino a diventare “pasta”, si devono percorrere molti secoli e consultare numerosi testi. Lo studioso di Gastronomia Massimo Montanari scrive: "La pasta nacque come variante del pane, sottile non lievitata (ma talvolta sì), a volte essiccata per favorirne la conservazione"Dall’impasto di semola e acqua iniziano a prender forma le prime paste.

Gli studiosi ritengono che l’alica romana, preparata con una semola macinata, o col farro, sia stata la prima forma di pane azzimo; una prima evoluzione delle antiche polente del mondo classico, chiamate in latino puls

La parola “pasta” in latino era conosciuta. In epoca romana esistevano diverse tipologie di pasta fresca principalmente, e secca, che veniva lessata o fritta, e chiamata: placenta, tracta, tràkta, lagana e lixulae.

Il nome pasta si trova per la prima volta, nella lingua italiana, in un documento del 1244, conservato presso l’Archivio di Stato di Genova. Si tratta della descrizione di una ricetta con cui un medico bergamasco prescrive al proprio paziente di non consumare “…pasta lissa…”.

Grande evoluzione del prodotto “pasta” si ha nel periodo che va tra il 750 e il 1150  d.C., in Asia centrale, dove fioriscono commerci, si sviluppano le arti e tanti furono i campi della conoscenza che raggiunsero il loro apogeo: si diede nome all’algebra; si calcolò il diametro della Terra; si diede evoluzione alla medicina.

In un momento di così grande fioritura culturale ed espansione commerciale, il mondo europeo della cucina venne influenzato dalla documentata cucina araba, e anche a seguito della dominazione araba in Spagna nel 711 d.C., che dura circa 700 anni, e in Sicilia. Nell’Europa occidentale, dopo la caduta dell’impero romano d’occidente e fino al XIV secolo, non ci sono, o non sono stati ritrovati, ricettari.

Nella prima metà del XIII secolo, un cuoco arabo redige a Murcia, nella Spagna meridionale, il libro Rilievi delle tavole, sulle delizie del cibo e dei diversi piatti, in cui espone diverse ricette con preparazioni simili a sa fregula. Si cita in sintesi il procedimento di una ricetta, chiamata fidawish: "mescolare bene semola con acqua e impastare vigorosamente, poi mettere l’impasto in un recipiente coperto. Se ne arrotola dolcemente un pezzettino tra le dita dandogli la dimensione di un grano di frumento, ogni grano deve avere il corpo fine e le estremità più fini del centro. Mettere i fidawish ottenuti in un vassoio sistemato con le mani, quando la pasta è esaurita, mettere il vassoio a seccare al sole e impastare un’altra quantità di pasta".

La Sardegna dal XIV al XVIII secolo è sotto l’influenza dei catalani prima e degli spagnoli poi, e respira la contaminazione araba in cucina. Cagliari, prima di Genova fu sin dal XIV secolo tra i maggiori esportatori di pasta. I libri doganali che sono giunti fino a noi  testimoniano che ciò avveniva fin dal 1351, e continuarono pure negli anni dal 1427 al 1429. I documenti doganali dimostrano l’esportazione della pasta sarda, obra de pasta e fideus, diretta sia a Napoli, sia a Barcellona e Maiorca.

Quale è il significato della parola frègula?

Le parole, come ogni cosa, si evolvono e si trasformano nel tempo, variandone anche i significati. L’etimo fregula risale al latino ferculum, passato in volgare a fregolo cioè briciolo, ma anche da: fercula - piatto; ferculum - briciolo; fricare - sminuzzare, strofinare, fregare; fricatum, frictum - sfegare. 

Fregula è una parola che si trova comunemente già nei vocabolari sardi ottocenteschi: - nel dizionario di Vincenzo Porru del 1832 si legge: “fregula termine chi no podit provveniri che de ferculum-ferculi …” - nell’Ortografia Sarda di Giovanni Spano del 1840, l’autore fa una distinzione tra le varie denominazioni della fregula, tra l’antico logudorese “su succu”, il cagliaritano “sa fregula”… Aggiunge, inoltre, che sa fregula era una “qualità di pasta che fanno le donne sarde con la semolella”.  

Oggi sa fregula viene chiamata impropriamente “fregola”, parola inventata dall’industria negli ultimi decenni del secolo scorso, e usata in molti ristoranti e riviste gastronomiche, ma solo per renderla più pronunciabile al consumatore italiano: in sardo non esiste. La parola “fregola” si ritrova nei vocabolari italiani con un significato che ha poco a che vedere con la pasta. L’enciclopedia Treccani riporta che la parola “frégola” significa: s.f., derivato da fregare, riferito in origine ai pesci, che si fregano ai sassi nel tempo di deporre le uova. 1. Eccitazione sessuale degli animali, che di norma si conclude con la fecondazione. 2. Voglia smaniosa, frenesia.

La fregula è una delle minestre più conosciute nella Sardegna contemporanea. Fino agli anni ’80 del secolo scorso, in ogni zona dell’isola, la stessa minestra era soggetta a varianti linguistiche diverse, e questo a conferma della complessità della gastronomia sarda. La stessa minestra, che assumeva delle piccole varianti nella preparazione, aveva le seguenti denominazioni, rimaste ancora vive nella lingua parlata: fregula nel Campidano; sucu, sucu minudu, maduru e russu, in Logudoro. Sucu è anche il nome che si dà a Busachi (Mandrolisai), a San Gavino Monreale (Medio Campidano) a una pasta filiforme; ambus, è la fregula nell’iglesiente; fregua, freguedda, fregua manna nell’Oristanese; pistiddu, pistitzone, pistigione, ministru in Barbagia. Ministru anche a Cossoine, nel Meilogu, e in Ogliastra.

Come è giunta in Sardegna sa fregula?

Le prime indicazioni potrebbero essere giunte in Sardegna dapprima con i Fenici e poi con i Punici, e i sardi potrebbero averla adattata, sia come nome, sia come preparazione. Tuttavia, potrebbe anche essere un’invenzione tutta sarda, e solo per caso, simile a creazioni di popoli lontani che coltivavano la stessa tipologia di grano e maturano la stessa esigenza. Si fantastica sull’origine di questo cibo fin dagli albori del mondo, ma bisogna ammettere che prima dei ricettari medievali, arabi prima e italiani poi, non c’è prova che si esistesse tale pietanza.

Nell’isola di San Pietro, a Calasetta e Carloforte, la pasta “cascà”, molto simile al cous cous, è stata portata dai Liguri provenienti da Tabarca (in Tunisia) nel 1736, ove furono costretti a rifugiarsi nel 1540.  

Il cibo più di ogni altra cosa viaggia e corre di bocca in bocca, si affina, si evolve, si contamina, soddisfa un primigenio bisogno: il sostentamento. Ma è anche un prezioso strumento d’arte nelle mani di sapienti menti che appagano sensi e curiosità di tanta umanità.

Giovanni Fancello

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