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Pagine da Mangiare | Tomasi di Lampedusa e il cibo dei principi

pubblicata il 19.10.2012

«Il pudico ritrarsi dinanzi al romanzo detective è un po' simile, in quanto a ridevolezza, a quel signore che molti anni fa venne a colazione da noi e si rifiutò di mangiare la minestra con le lenticchie perché la trovava "proletaria". È facile dirsi buongustai assaporando soltanto il foie gras de Strasbourg. La difficoltà comincia quando il palato esercitato deve scoprire quanto vi sia di buono nella minestra, appunto, di lenticchie o nel cacio all'argentiera». A chi venne in mente di paragonare i romanzi gialli a una minestra, o alla versione siciliana del formaggio in padella? A un letterato o a un buongustaio? Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che ha scritto queste righe, era un letterato, un buongustaio, un siciliano, un principe: l’autore del romanzo Il gattopardo. Il romanzo, si sa, fu molto presto portato sullo schermo da Luchino Visconti, ma la sua sontuosa versione cinematografica – almeno sotto l'aspetto gastronomico – deve cedere il primato della rappresentazione al testo scritto. La capacità di suggestione di quest'ultimo si fonda sul nitore del lessico (compreso quello dialettale, per lo più lasciato senza traduzione) e sui felici accostamenti fra cibi e vicende del romanzo. Cibo da un altro pianeta: da un tempo remoto, da una classe sociale per definizione minoritaria avviata alla dispersione. Tomasi scrive da un'epoca nella quale l'opulenza gastronomica era associata alla condizione sociale privilegiata: pranzi ricchi, elaborati e quel che più conta abbondanti, che si potevano permettere solo i nobili. Una cultura che pregiava di conseguenza gli effetti di tanta dieta, anche sulla corporatura di signore e signorine. Corpulento era lo stesso Lampedusa, fin dalla giovinezza, come si può vedere dalle molte fotografie note di lui. È vero che la complessione robusta doveva senz'altro parecchio ai geni.  Difficile però non attribuirgli – guardando il giovane uomo grasso seduto con poca compostezza in poltrona, o l'uomo maturo a passeggio per Palermo – quell'amore per il cibo da lui espresso con tanta contagiosa chiarezza. Frequenti cenni si trovano nelle lettere dello scrittore, dai quali si capisce che il piacere di scriverne era naturale conseguenza di quello provato gustandone. Tanta attenzione amorosa, esente da rimorsi, felice per questo aspetto della vita quotidiana si trova anche negli altri scritti di Tomasi. Nel volumetto di Racconti il tema ha vivido risalto: addirittura uno dei due racconti si sarebbe dovuto intitolare Il panettone. Ma è nell'altro – La sirena – che il cibo si offre come una delle più forti manifestazioni del prodigioso incontro con la creatura acquatica del titolo. E nella cornice narrativa che racchiude la storia, un piatto di ricci di mare freschi è il segnale della confidenza che si va instaurando fra i due protagonisti maschili della novella, confidenza che appunto induce uno dei due a descrivere all’altro la meraviglia di quell’incontro. Un giovane uomo, studioso della lingua greca, durante un'estate torrida in riva al mare incontra una sirena e con lei trascorre lunghe ore. La prova più ardua è ritrarre in maniera credibile la felice carnalità della sirena, la sublime commistione di natura umana e animale, il suo andare esente da tutto ciò che mina l'essenza e l'esistenza degli esseri umani. Non potrebbe esserci segno più eloquente del fatto che la sirena non è un essere umano dei gesti del suo nutrirsi. Un merluzzetto divorato coi denti, con grazia e ferocia, una manciata di vongole morse insieme alle loro valve. Gli appetiti della sirena si dispiegano con elegantissima, brutale, naturalezza proprio perché si trovano nel punto d’incontro fra i desideri elementari, animali, e la dimensione mitica dell’essere salito dalle profondità marine per amare il giovane mortale. In Tomasi il cibo assume sfumature narrative sottili, variegate, talvolta metaforiche, spesso allusive. Uno brevissimo, nella terza parte de Il gattopardo, sembra racchiuderne in sé una miriade, di sfumature. Il principe di Salina, il Gattopardo, va a caccia. Gli è compagno l’organista del paese, vecchio amico ma povero in canna. «Nella circoscritta ombra dei sugheri il Principe e l'organista si riposarono: bevevano il vino tiepido delle borracce di legno, accompagnavano un pollo arrosto venuto fuori dal carniere di Don Fabrizio con i soavissimi "muffoletti" cosparsi di farina cruda che don Ciccio aveva portato con sé». Niente può rappresentare meglio la sodalità e lo scarto sociale fra i due uomini del pollo arrosto preparato nelle cucine del palazzo principesco (siamo nel 1860, un pollo non si ammazzava e cuoceva tutti i giorni) e delle focaccette popolane (ma soavissime), delle quali si nutrono insieme. Immagine: Casa degli Italiani

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