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Il Sabato del Villaggio | Ovvero della soddisfazione marginale decrescente

pubblicata il 02.06.2012

Quando avevo 12 anni ricevevo 1500 lire di pagozza alla settimana. Certo, non sono gli 8.000 dollari che Lourdes incassava da Maria Louise Veronica Ciccone, ma erano una bella sommetta: ci potevo comprare 5 litri di benzina super per il Peugeot 103, ammesso che avessi già in cantina l'olio Castrol per la miscela. Oppure 1,5 numeri di Urania, che allora era quindicinale. Poi fui folgorato sulla via della musica: non so come venni in possesso di A trick of The Tail dei Genesis e seppi che non volevo null'altro nella vita che ascoltare quella roba, possibilmente a volume alto. Scesi dal Cammello - il negozio di dischi sotto casa mia - ed ascoltai per la prima volta Whole Lotta Love. Comprai l'albo a lir 4.000, ma siccome non c'era capienza nella pagozza, lo pagai a rate. Il Cammello, bontà sua, si accontentava del millino la settimana, e io ascoltavo il mio dischetto con un mese di anticipo. Acquistavo dunque un disco al mese: e lo ascoltavo alla nausea. Imparavo i testi le sfumature gli accenti, e si discuteva tra amici quale era la più penetrante delle canzoni. Quando uscì A Night at The Opera, il capolavoro indiscusso dei Queen, ci si picchiava tra i partigiani di Bohemian Rapsody e The Prophet Song, mimando i gesti e citando i versi a memoria. Molti anni dopo il peer-2-peer mi portava in casa 4 o 5 albi nuovi ogni giorni. Il decimillesimo lo ascoltai una volta sola, e forse nemmeno tutto. Si fagocitavano le note come budino di fecola, dimenticando quasi immediatamente l'ascolto in una bulimia senza fine. Credo che l'esperienza al ristorante sia viziata da un numero eccessivo di prove: la milionesima cena sarà una prova difficile da sostenere sia per la continua lotta con le calorie sia per la saturazione papillare che troppi piatti troppo buoni possono generare. Lo diceva anche Zamagni, che mi insegnava Economia Politica: il terzo panino va bene, il quarto stucca, il quinto disgusta. E' un male che credo affligga esclusivamente i mangiatori di professione: quelli che per provare un minimo di emozione debbrano trovarsi di fronte il famoso fegato di Dodo impanato nella sabbia del deserto e poi fritto in olio di orchidea e poi farcito di fede speranza e carità. Difficile poi che l'esperienza sensoriale di un giannizzero che al venerdì si ferma disperato di fronte al quinto pranzo pentastellato della settimana, che stramazza quando il cuoco gli porta "un assaggino del salame fatto con le mani dal nonno Eulalio" sia confrontabile con quella di un Normale Essere Umano, che affronta con una certa levità il suo pizzino mensile. Ma in chiusura vale la pena di ricordare che questo problema affligge una parte non decisiva della popolazione mondiale.

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