Attualità

Il Sabato del Villaggio | Naturalmente, buono.

pubblicata il 13.04.2013

Ci sono due appuntamenti fissi nell'anno: il Vinitaly e la costipazione da Vinitaly. Quella cioè che puntualmente arriva il giorno prima, ti occlude i recettori olfattivi, ti gonfia la testa d'elio, ti stordisce e ti lubrifica le rotule al punto di rendere problematica la deambulazione. Dunque mentre la tedesca larga di fianchi mi menava verso Villa Favorita, il falansterio di Vinnatur, il materiale inerte confinato tra le orecchie mi rombava di tuoni, gli occhi lagrimavano, l'orientamento difettava. Tanto che incontrando il volontario all'inizio della strada alberata di Sarego avevo qualche difficoltà a comprendere l'indicazione "Più avanti sulla strada c'è il parcheggio con la navetta". In effetti il parcheggio c'era, non esattamente sulla strada, e c'era pure una lodevole navetta gratuita, comodissima e anche discretamente frequente. Un cartello avrebbe aiutato, ecco. Saliti i gradini, il movimento. Vedo facce note che mi sospingono di qua e di là, assaggio cose con metodo scientifico positivista, secondo i dettami della Teoria del Caos. I Soave di Filippi sono buonissimi, soprattutto quelli vecchi. I rossi di Valli Unite sono quadrati. No, cubici. No, poligonali, per quanti spigoli hanno, ma quanta buona volontà. Il loro Salame Nobile invece è già un capolavoro. A Cà de Noci, le etichette più belle del mondo, Giovanni Masini porta anche un esperimento: Le Tre Dame, rosso frizzantino da uva Termarina. Me la ricordo l'uva Termarina: spargola, chicchi minuscoli, niente vinacciuoli. Mio nonno ne aveva tre piante, quando la vendemmiavano mi mettevo a piangere: troppo buona da mangiare. Cà del Vent, dove Antonio Tornincasa mi racconta le sue direzioni e mi stende con un Cabernet rustico e volitivo. C'è Laherte, lì di fianco, il profeta dello champagne acidofilo. Non so se ho fatto un assaggio o una detartarasi, anche se riconosco la pulizia cristallina di quelle bolle. Peggioro. Abbandonata ormai ogni capacità di intendere e di volere, incrocio il reprobo Fracchia, a cui mi aggrappo senza pudore alcuno: lo seguo acriticamente, pronto ad ogni avventura. Impietosamente, il mio barbuto pigmalione mi trascina nelle segrete. Al piano di sotto, tra le fascinose volte, la folla si stipa. Si accalca. Penombra, gomiti nel plesso solare. Zang tumb tumb di omeri, ginocchia e clavicole. Smetto di appuntare cosa bevo, ma è Francia. Un paio di cose superano la soglia del dolore. Altre si omologano ad una linea. Altre ancora escono dalla linea ma non riesco a vedere dove stanno andando. Fracchia sa tutto, e discute di tecniche di vinificazione esoteriche. Dicono cose tipo macerazione con il raspo, ma il raspo non è maturo. Di certo non sono le condizioni ideali per affrontare una degustazione che già di per sé non avviene in condizioni ideali, ma quello è un dato. Ma mentre caracollo verso la luce - bello il prato con l'orchestrina jazz - mi faccio delle domande. Già dicono che dobbiamo bere poco: il medico il parroco il farmacista, ed anche il capitano dei carabinieri lo dicono in tutti i modi, rendendo tremebonda la nostra mano che corre al calice. Se poi quel bicchiere diventa un'arrampicata di sesto grado, mi passa la voglia di alzarlo. La navetta - puntuale, precisa, comoda - mi conduce al parcheggio. Come sempre accade dopo le giornate d'assaggio sono frastornato: mi trovo a mio agio con questa tipologia enologica, anche se ho la sensazione che il bailamme mediatico stia confinando il movimento all'interno di un genere. Per dire, per essere "naturale" devo vestirmi da "naturale", comportarmi da naturale, andare dal parrucchiere "naturale". Mi piacciono questi vini, mi piace la convinzione con cui i vignaiuoli portano avanti il loro discorso. Mi piace anche che lo facciano senza curarsi troppo del parere degli altri, che alla fine conta di aver fatto quello che desideri. Mi piace un po' meno la serpeggiante idea "noi siamo meglio di loro". Giusto perché trovo diminutivo classificare l'universo per categorie. E infine: mi metto l'elmetto prima di dire quello che sto per dire: al tempo della barrique e delle concentrazioni pappettose i vini sembravano tutti uguali. Dopo un'assaggio di venti macerati "naturali" - di livello altissimo peraltro - la sensazione è stata più o meno la stessa. Ecco, questa è la direzione da non prendere.  

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