Attualità

Fiere del cibo | Tuttofood 2013

pubblicata il 27.05.2013

Una giornata (quasi) intera trascorsa nei padiglioni della manifestazione milanese serve appena a portare via qualche impressione: nessuna pretesa di completezza, nè indagine antropologica, nè acute analisi economiche, ma qualche considerazione a volo radente. Molta industria: grandi numeri per prodotti di grande tiratura, con qualche incursione nelle referenze artigianali, dove con l'abusato termine si intende attività in cui il risultato del lavoro dell'uomo è sempre diverso ma sempre ottimo, in cui l'imperfezione diventa quasi un valore aggiunto non solo accettabile, ma gradito. Ecco alcuni spunti di riflessione. C'è vita oltre la crisi. Se altri settori mostrano i sintomi dell'asfissia, il food pare vivo e vitale. O almeno, dà l'impressione di esserlo. Operatori numerosi, aggressivi, volonterosi; prodotti che cercano spazio; imprenditori che imprendono, e stanno sul posto, e sovrappongono l'azienda e se stessi. Nessuno si è arreso, anzi, gli stand - grandi e piccini - trasudano voglia di fare, di relazionarsi. Lustrini. Molti allestimenti pangalattici. Pareti di sei metri di prosciutti, globi rotanti al fulmicotone, oceani di salamelle, reef di pastasciutta. Riflettori, faretti, vertine. Mancavano solo i laser e le stroboscopiche. Andava meglio quando andava peggio. Viste le icone dei bei tempi andati: le seicento multiple, i camioncini anni quaranta, lambrette biciclette e vespette. Di un mondo di cui ci si sforza di recuperare gli aspetti romantici, con un risultato un po' plastificato ed autocelebrativo, perchè in fondo quegli anni là nessuno li vuole indietro. Il Marketing della Minigonna. Per chi proviene dal mondo dell'auto non fa specie di vedere le cavallone scosciate con venti centimetri di stoffa addosso negli stand degli espositori. Tacchi vertiginosi e scollature abissali sono da sempre accessori di ogni Salone automobilistico. Non è chiaro quale valore comunichi la minigonna conclamata a fianco della distesa di capocolli, che non mi risulta che il macellaro sia mestiere da affrontare con calze velate da 44 denari. E poi, insomma, ho capito che la maggior parte dei decision-maker sono di genere maschile, ma proviamo ad arrenderci all'idea che esistono anche intelligenze non ormonate. Il Marketing della Tradizione. La parola più letta nelle decinaia di migliaia di metri quadri di Rho è "tradizione". E la sua traduzione - si perdoni il giuoco di parole da un euro - si concreta spesso in qualche attrezzo del nonno, in foto virate al seppia, in confezioni dal sapore imperialregio. Rari gli scatti in avanti, per una volta graziati dallo slogan più consunto, "Tradizione e Innovazione". Il Tricolore. A volte s'avverte una sensazione di oppressione forzata in quei sottotitoli "100% italiano" che i creativi particolarmente creativi innestano come un sol'uomo nelle salsicce come nella pasta, nel tartufo come nelle conserve. Un valore che diventa disvalore in virtù d'abbondanza. Ci farei un pensiero. Bene, dunque, la nave del food va, ed è una prima, eccellente notizia nel panorama di naufragi e relitti che gli anni '10 ci stanno proponendo. Poi, sarà il caso di dirlo, la vera sfida dell'alimentare italiano è di sfornare prodotti di valore pur nei grandi volumi, che sono - al netto della retorica - quelli che spostano la bilancia dei pagamenti. In sintesi, come la Formula Uno è il laboratorio ma sono le catene di montaggio che muovono l'economia, alla stessa maniera pensiamo ad una comunicazione che valorizzi le unicità e annetta le produzioni di massa allo stesso universo di valori. Qualche segnale c'è, anche se a volte la retorica crea un rumore di fondo tra cui è difficile scorgere il vero. Ma la strada è quella.

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