Attualità

USA | La peggiore bistecca della mia vita

pubblicata il 15.01.2013

Qui, dove le strade non hanno un nome, un copione scontato avrebbe previsto gli U2. Ma noi, lisergici, stiamo con Glenn Gould e le Variazioni Goldberg. A palla. Capiamo subito che Joshua Tree non è Yellowstone o Yosemite: una lunga highway solitaria traccia questa linea retta nella polvere del deserto, ai lati le pompe di benzina, un pugno di motel, poche case basse e allineate, pochi esercizi malmessi, poco di qualsiasi altra cosa. Recitava Emidio Clementi: una strada attraversa il paese, il paese è quella strada.
Troviamo l'eccezione che conferma una buona regola nei quattro pallini Tripadvisor di sudiciume e squallore del motel. Mi siedo su un blocco di plastica che ambirebbe al ruolo di materasso, accarezzo la federa sgualcita di un cuscino dal cuore giallastro e penso che se tutto questo fa schifo a uno come me, chissà come la starà vedendo lei, abituata ai Best Western del Fondo Monetario. Alla reception l'indiano fa l'indiano col mio inglese, senza riuscirci. Non più di una notte in questo tugurio.
È calato l'imbrunire quando usciamo dalla valle di rocce dai visi grotteschi e di agavi spettrali e mostruose. Scopriremo solamente il giorno dopo che il minaccioso orrore notturno di quelle braccia contorte e protese al chiaro di luna erano il volto più autentico del parco.
La città è morta. Le speranze presto si infrangono sui battenti serrati dei pochi nomi appuntati alla voce ristoranti. I km macinano, le pretese si abbassano, gli abbaglianti lacerano la notte fino a posarsi su questa insegna curiosa, una grande mela rossa, promettente solo perché mai vista prima ai bordi di una highway. All'ingresso, per le fila del sabato sera, si trasmettono eventi sportivi. Ogni genere di eventi sportivi. L'interno è accogliente ma dozzinale, ha il sapore della finzione, mentre i soliti televisori vomitano ognuno un match diverso, persino il soccer. L'usuale pellegrinaggio al banco spine restituisce dignitose banalità come Samuel Adams. Pur sempre un miraggio per chi vive di Peroni, ma gli USA ci hanno viziato oramai.
Ci accomodiamo dietro a una coppia in un tavolo a lato. La lista del cibo, zeppa di foto, sembra la locandina della svendita sottocosto di un supermercato di elettronica. A questo punto ho realizzato oramai il passo falso. Cerchiamo di limitare i danni, lei d'esperienza con una insalata, io da fantasista con la puerile filosofia del poco ma buono, un patetico controfiletto da 9 once che mi arriva al tavolo grigio e triste, bombato come fosse stato passato alla fresa prima di finire in padella. L'arrostitura è solo un vago ricordo della reazione di Maillard: pare piuttosto sudato fradicio. Ha il suo bel da fare il coltello per mostrarmi che la cottura quantomeno è quella richiesta, al sangue, ma in bocca è tutto un lavoro di molari, un triturare cuoio, mentre la crosta accompagna la memoria al ricordo dell'ospedale e dei suoi lessi. Non ha neppure la dignità di essere pessimo, ma si posiziona in quella zona franca in cui chi volesse attribuirgli qualche qualità, o qualche attenuante, si sentirebbe nella legittimità di farlo. Patatine fritte riscaldate e temibili broccoli al vapore sconditi sono i degni compari di questo strazio.
La notte dilaga, spezzata dal fracasso di qualche autotreno. Prima di riparare nel nostro stambugio cerchiamo conforto nel liquor shop dell'isolato. L'indomani taglieremo per l'Anza-Borrego per cogliere San Diego alle spalle, valicando le montagne. Abbiamo chiara la differenza fra mangiare e nutrirsi. Ora ci attendono gli acari.
Foto: Carside.

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