Mi ricordo perfettamente la prima volta che ho incontrato i
cucunci. Ero a Lipari. Era il 2001. Ed è il ricordo più vivido di quelle vacanze, assieme al ritorno apocalittico fra mare grosso, scioperi dei treni, incendi sulla linea ferroviaria, rotture dell’impianto elettrico ferroviario e - ahimè – attacco alle torri gemelle. I capperi no, quelli li conoscevo da tempo. Odiati in gioventù, sono diventati un prodotto familiare e amato grazie agli scogli del Gargano su cui abbondavano queste piantine dai fiori mediterranei. E quando l'esperienza diventa emozione, e l'emozione ricordo, anche l'odio diventa amore.
La pianta del cappero è una
suffruticosa molto diffusa sugli scogli e sui muri delle coste del Mediterraneo, ma non è raro trovarla anche nell'entroterra e nelle zone più a nord. Il nome scientifico è
Capparis spinosa, famiglia delle
Capparidaceae o
Capparaceae. Ha un apparato radicale molto profondo e resiste molto bene agli stress idrici e salini. Per questo in Turchia viene utilizzata anche per il recupero di terreni degradati e aridi, a rischio erosione.
Ma quello che ci interessa di più è l'utilizzo alimentare che si fa di questa pianta. Il prodotto più conosciuto è senza dubbio il cappero, che è - togliamo ogni dubbio - il bocciolo fiorale della pianta, ossia
il fiore non ancora aperto.
I fiori compaiono sulla pianta indicativamente dalla fine di maggio ai primi di settembre. È questo il momento giusto per raccogliere i boccioli fiorali, che hanno una maturazione molto scalare. Per questo sulla pianta se ne trovano di varie dimensioni, e per questo è necessario tornare più volte sulla stessa pianta per completare l'opera. Vengono raccolti normalmente di primo mattino, o al tramonto, e subito suddivisi per pezzatura e lavorati con l'aggiunta di circa il 40% del peso in sale. Vengono così lasciati macerare per alcuni giorni con frequenti rimescolamenti, in mondo che perdano l'acqua e creino una salamoia naturale. Proprio in questa fase avviene una fermentazione lattica che fa perdere al cappero l'amaro troppo intenso che ha da fresco, e conferisce quelle caratteristiche organolettiche di profumo e sapore che tutti conosciamo. Dopo circa 10 giorni vengono scolati dalla salamoia, viene aggiunto loro un ulteriore 20% in peso di sale e vengono lasciati in queste condizioni per altri 10-20 giorni. Le modalità di lavorazione sono puramente indicative, in quanto, come prodotto artigianale, le tradizioni familiari la fanno da padrone. Se ne trovano in commercio in aceto o in salamoia, ma i puristi li consumano esclusivamente sotto sale. Il prezzo è in funzione dalla provenienza e dalla pezzatura: più il cappero è piccolo, più è buono e apprezzato, e più è costoso.
Fra i più noti sicuramente troviamo i capperi siciliani: da quelli di Pantelleria, insigniti dell'IGP (Indicazione Geografica Tipica), a quelli di Salina, nell'arcipelago delle Eolie, riconosciuti come presidio da Slow Food.
Alla povera pianta del cappero, a cui viene interrotto il ciclo naturale della vita, ogni tanto viene però concesso anche di dare forma a quelli che sono i suoi organi di propagazione: i semi, ricoperti e protetti dal frutto. E proprio
i frutti sono oggetto di ulteriore attenzione da parte degli agricoltori prima, e dei consumatori poi: sono i
cucunci di cui all'inizio di questo breve racconto, ma si possono trovare in commercio con altri nomi, come ad esempio
cetrioli del cappero. L'aspetto è più allungato e le dimensioni sono decisamente maggiori. Si raccolgono nello stesso periodo dei capperi, con la sola accortezza che non siano troppo maturi, altrimenti i semi presenti all'interno diventano fastidiosi in bocca. La lavorazione è praticamente la stessa, ma il prodotto finale è giocoforza diverso. Meno aromatico e più salato il cucuncio, in funzione della sua maggiore carnosità e capacità di assorbimento del sale nel quale viene normalmente lavorato e conservato. Si trovano in commercio sotto sale, in salamoia, sott'olio o sotto aceto.
Da provare al posto della classica oliva nel classico Martini.