Attualità

Birra artigianale e alta ristorazione: 6 cause del divorzio breve

pubblicata il 28.11.2014

È un copione che si ripete nelle pur sporadiche uscite di un certo calibro per un austero come me. L’ultima volta questa estate. Sei a un tavolo a farti illuminare da un paio di stelle vulcanizzate, hai la carta dei vini fra le mani e la sfogli, pagina dopo pagina, fino all’ultima, immancabile ormai: quella delle birre. Non starò qui a tediare sulla bottiglia di Saison Dupont a 20 euro e sul ricarico del 500% perché se ti affacci alle migliori cucine d’Italia sai bene che devi lasciarti alle spalle il vetusto concetto di legame col costo per scontrarti con quello più nebuloso e assoluto di “esperienza”, come si fa per il concerto di un gruppo di culto, e con delle domande più spicce del tipo “posso permettermelo?”, “ne è valsa la pena?”. D’altronde nessuno ti obbliga a scegliere birra, infatti ho bevuto vino per qualche spicciolo in più. Ma la ragione della scelta perlappunto, andando oltre la preferenza personale, non è stata certo il costo.
Agli albori della birra artigianale in Italia qualcuno pensò, Baladin in testa, di posizionare il prodotto assecondando il mercato della ristorazione, a partire dal formato da 75 cl. Al di là dei singoli casi di successo è difficile dire senza numeri alla mano se quella strada sia stata proficua per l’intero movimento, ma a vedere le tendenze recenti che privilegiano fusti e riconversioni a formati da 33 cl se non addirittura lattine, più adatti ai luoghi in cui la birra si è sempre venduta, pub, locali e festival, qualche dubbio viene. È fuori di dubbio che la birra abbia un ruolo privilegiato su molte tavole, da quelle plebee fino a quelle borghesi, un ruolo peraltro ancora parecchio da valorizzare. Questa mancanza di perizia nella proposta del prodotto birra appare via via più evidente mano a mano che si sale di livello, con esiti deprimenti presso le tavole patrizie dell’alta ristorazione dove a mio parere non vale mai la pena scegliere la birra allo stato dell’arte attuale. Ecco perché.
L’ignoranza dei sommelier riguardo al prodotto birra. A una tavola stellata ti aspetti un servizio stellare, compresa una adeguata presentazione delle bevande. Fa piuttosto specie sentirsi raccontare l’albero genealogico di un produttore di vino e una raffazzonata descrizione di una birra. Sono prodotti che hanno pari dignità, complessità e tradizione e andrebbero proposti con lo stesso riguardo e competenza. Lo so che ci sono sicuramente delle eccezioni in qualche desco fortunato, ma sono pochissime.
L’inadeguatezza dell’offerta formativa. La causa del punto precedente. Capita a volte di leggere moduli sulla birra organizzati dalle varie associazioni di sommelier a prezzi stratosferici, spesso e volentieri in collaborazione con gli industriali della birra. Va da sé che le birre in degustazione non sono poi esattamente quelle che vorreste trovare nella carta di uno stellato. Sui docenti difficile esprimersi senza presenziare ma al di là della preparazione tecnica non sono quasi mai quelle persone che da anni viaggiano, assaggiano e si documentano sul panorama sempre più in espansione della birra artigianale nel mondo, cioè quello che un gourmet esigente vorrebbe poi trovare selezionato nelle tavole dell’eccellenza. Chi vorrebbe un docente di vino pur preparato che non visita fiere e vigneti per assaggiare e parlare coi vignaioli? Qualche volta invece le lezioni le tiene direttamente qualche sommelier del vino, con esiti discutibili a leggere le slides che capita di intercettare. Resta un mistero il motivo per cui non si possa arruolare qualcuno che sappia a fondo del prodotto che si dovrebbe poi proporre e raccontare al cliente. Forse superbia, forse sciatteria, forse le fette della torta degli introiti è meglio che restino in casa. Inutile dire che esistono poi anche corsi di degustazione dedicati esclusivamente alla birra. E addirittura qualche libro sul tema specifico che potrebbe aiutare il maître sprovveduto a volerlo leggere.
Le sponsorizzazioni. L’ingrediente deve essere a km zero e possibilmente chiocciolato, la cottura a bassa temperatura, il vino biodinamico, ma poi se per arrotondare il conto in banca mi faccio sponsorizzare dalle chips in sacchetto figurati se mi faccio problemi per la birra industriale. Il problema è che poi nessuno si aspetta di trovare il sacchetto di patatine con lo champagnino come omaggio della cucina e lo sappiamo tutti che pecunia non olet, ma se le padelle griffate compresa la più prestigiosa d’Italia ti confezionano piatti abbinati con prodotti di multinazionali in serate promozionali è un po’ difficile poi essere credibili nel proporre millesimi di Stille Nacht o metodi Solera di The Bruery in abbinamento al fegato grasso al tuo ristorante.
La conservazione. Punto cruciale questo e forse insormontabile. La birra è un prodotto diverso dal vino, nel 99% dei casi non è pensato per essere conservato a lungo e in moltissimi casi pochi mesi bastano a penalizzare la freschezza irrimediabilmente. È uno dei motivi per cui molti pub puntano soprattutto sulle spine e io stesso come consumatore tendo a privilegiarle: la probabilità di bere un prodotto fresco e in forma è maggiore. È pensabile un’alta ristorazione che propone spine? O che riesca ad avere una rotazione delle bottiglie così veloce da assicurare sempre un prodotto fresco? È il serpente che si morde la coda: il pubblico abituato al vino è poco interessato, le bottiglie invecchiano, quando riesci a proporle non fanno una buona impressione e il gourmet si interessa ancora meno.
La selezione. Se sei poco competente, hai pochi stimoli commerciali e temi di ritrovarti con una cantina di birre immobile è difficile che la tua selezione sia molto ampia e ricercata. Eppure la ricerca e l’eccellenza è esattamente quello che ci si aspetta dall’alta ristorazione. Quanti si riterrebbero soddisfatti da una carta dei vini di un paio di decine di bottiglie facilmente reperibili sedendo ad un bistellato? Per quale motivo al fianco di una pur ottima Saison reperibile al supermercato non dovrebbe apparire in carta anche qualche referenza più di ricerca? La realtà è che la famigerata carta delle birre spesso appare solamente come qualcosa di esotico e curioso nell’economia dell’alta ristorazione.

Gli abbinamenti. Se per i vini la teoria e la pratica sono ampiamente sviluppati, per la birra se non c’è il vuoto poco ci manca. Qualche testo c’è in lingua inglese ma è difficile superare il pregiudizio di farsi insegnare come abbinare cibo e birra dagli americani… e qualcosina si trova anche in italiano, ma non un testo che sviluppi una teoria vera e propria e i dovuti approfondimenti. Peraltro non c’è poi molto da inventarsi, se non riprendere Mercadini e aggiornarlo ad un prodotto diverso e a due peculiarità della birra assenti o secondarie nel vino: amaro e harshness del luppolo. Finora non ci si è messo nessuno e si brancola nel buoi o quasi, tranne quei pochi che ci capiscono qualcosa. Io ne conosco solo uno ad esempio e non lavora fra i tavoli di uno stellato.

Niente alta cucina per i birrofili quindi? Naturalmente c’è il lieto fine. È un mondo difficile e occorre fare delle scelte. Far convivere ampie carte di vini e birre è impossibile ma nulla impedisce di provare soluzioni nuove e radicali: competenza, cucina di alta qualità, se non proprio alta cucina, e selezione ampia ed esclusiva di birre magari in un ambiente meno formale che permetta di portare il conto finale a cifre in linea con una clientela crossover, da un punto di vista dell’approccio e della dichiarazione dei redditi. Qualcuno ci sta provando, a Bergamo, a Roma, altrove. I risultati sono molto promettenti.

Condividi

LEGGI ANCHE