Attualità

Sono tornato all'EVO e non sono morto

pubblicata il 27.06.2012

Di norma quando scrivo di una esperienza non soddisfacente il cuoco si impermalosisce, invoca la sacralità del suo impegno, le 22 ore di lavoro al giorno, i soldi investiti, il rispetto e tutto quello che ruota attorno al delitto di lesa maestà. Nei casi peggiori mi suggerisce di nutrirmi solo di liofilizzati, mi chiede come faccio a giudicare visto che mangio solo guano surgelato e che mia mamma mi picchiava da piccolo. L'Evo di Milano non mi era proprio piaciuto, e ne avevo detto. Marco Avella invece: su fazzabù mi contatta cortesemente, mi spiega le ragioni. Mi dice che quella recensione non gli farà bene. Si dispiace. Mi invita a tornare, sempre con toni garbati e misurati. Vado. Poi ci farò anche qualche chiacchiera, con Marco Avella: e sarò colpito dai modi sinceri e trasparenti. Perchè l'Evo è lì per fare una ristorazione onesta, con l'ambizione precisa di fare quel mestiere lì. E' andata molto meglio, anche se qualche sfumatura ha bisogno ancora di attenzione. Il carpaccio di fassona non era male anche la foglia di barbabietola era davvero superflua, le sarde a beccafico belle e con un gratin di perfetta misura, i pansotti giusti e conditi correttamente ma con il ripieno alla temperatura di fusione, lo spatola - che nel cuor mi sta - saziante e un po' grosso di trama. Il pregio di tutto questo è che da un lato chi lavora può giovarsi di chi racconta, e chi racconta può anche tornare sui suoi passi. Senza drammi.

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