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Foss Marai. Storia di una famiglia e di una bottiglia sbagliata, 40 anni di esperienza ed eccellenza nel vino

pubblicata il 17.10.2023

Intervista alla famiglia Biasiotto, che alla fine degli anni Ottanta ha fondato l’azienda nel cuore del territorio di Valdobbiadene: “Il futuro sono i vini poco alcolici, fruttati, facili ma con personalità”

“Ma quanto è brutta questa bottiglia?”: dietro questa frase, detta un giorno di tanti anni fa da Carlo Biasiotto alla moglie Adriana, c’è una fra le storie più curiose dell’industria enologica italiana. Perché quella frase ha dato il là al processo che ha portato alla creazione di un’altra bottiglia, una bottiglia non solo bella ma anche inconfondibile e molto imitata.

La bottiglia è quella tipica “a birillo” dei vini Foss Marai, azienda fondata nel 1986 dalla famiglia Biasiotto a Guia, in Veneto, nel cuore del territorio di Valdobbiadene, ma la cui storia risale a molto, molto prima: “Si parte dagli inizi del ‘700”, ci ha spiegato Andrea Biasiotto, che oggi è direttore commerciale dell’azienda creata dai genitori.

Dall’agricoltura, le origini di Foss Marai

Perché dagli inizi del ‘700? La signora Adriana Biasiotto ci ha risposto così: “All’epoca, il bisnonno di mio marito fu fra i primi a dedicarsi all’agricoltura in una zona che allora era dedita prevalentemente alla pastorizia, alla tessitura della lana, agli allevamenti. E visto che lì era (ed è tuttora, ndr) difficile coltivare frumento, granturco e barbabietole, le viti e l’uva sono state una scelta naturale, venuta da sé”. Ed è così che è in qualche modo iniziata la storia di Foss Marai.

L’azienda, il cui nome deriva da quello di una località a metà strada fra Valdobbiadene e Conegliano, oggi dà lavoro a 15 persone, ha 7 ettari di vitigni di proprietà (e una rete di 100 fornitori di uve), fattura 12 milioni di euro l’anno e vende il 25% della sua produzione all’estero. Produzione che si aggira sul milione e mezzo di bottiglie ogni anno, che sembrano tante ma non sono tante. Sono giuste, sono quello che dà il territorio.

Foss Marai è nota soprattutto per i suoi spumanti e prosecco e sin da subito l’azienda si è dedicata esclusivamente al cosiddetto canale HoReCa (la sigla sta per hotel, ristoranti e caffé o catering) e i suoi vini non si trovano nei supermercati. Questa non è una scelta di snobismo e men che meno una scelta di comodo, ma una scelta di coerenza con l’impostazione di azienda a conduzione familiare pur con apertura al mercato internazionale: “Non puoi inseguire la quantità, non in questo territorio, perché quello che dà è limitato”, ci ha detto Andrea Biasiotto. E quindi “rinunci a qualcosa, ma tieni salde le radici e il collegamento con le tue origini”.

Per loro stessa ammissione, quelli di Foss Marai sono “piccoli, ma per scelta”, perché “il territorio è questo, e noi prendiamo quello che ci dà”. Che è il motivo per cui non vendono i loro vini nei punti vendita della grande distribuzione (ma nelle enoteche sì): “Non è facile però è una scelta - ci ha detto ancora Biasiotto - Non vogliamo e non possiamo arrivare alla grande distribuzione e ai supermercati, non abbiamo i numeri e siamo contenti di non averli”. Insomma: “Si rinuncia a una parte di possibile profitto, ma si punta sulla qualità”. Che è una cosa che hanno fatto anche durante il non facile periodo Covid, a proposito di coerenza: “Con un anno e mezzo di chiusura delle attività che usano i nostri vini, è stata dura ma non ci siamo fatti tentare, nonostante che dalla GDO ricevessimo tante proposte”.

Foss Marai, la storia della bottiglia “a birillo”

Dalla loro, oltre alla qualità e alla varietà, dovuta anche al fatto di usare uve diverse in diversi periodi dell’anno e diversificare il periodo di vendemmia, così da avere combinazioni e sfumature di vino sempre nuove, hanno appunto la bottiglia di cui si diceva all’inizio.

Bottiglia che è parte integrante dell’identità di Foss Marai, secondo cui “il buono dev’essere anche bello” (una cosa che dice pure lo chef Bottura, quando ricorda che “non c’è buono senza bello”). Una bottiglia la cui nascita non è stata facile: “Abbiamo iniziato a usarla dai primi anni ‘90, intorno al 1992 - ci ha ricordato la signora Biasiotto - Non l’abbiamo brevettata e ce l’hanno copiata in tanti, anche se all’inizio fu rifiutata, perché non rispettava gli standard, non stava nei frigo perché è più panciuta”. Nonostante questo, sono andati avanti e alla fine hanno avuto ragione. Coerenza, di nuovo.

Va bene, ma com’è nata questa curiosa bottiglia? Dalla frase di Carlo Biasiotto su “quanto è brutta questa” (quella precedente), ma poi? “Quella ce l’eravamo fatta fare da un noto designer sulla fine degli anni Ottanta, ma appunto non ci piaceva - ci ha detto ancora Adriana Biasiotto - All’epoca rifornivamo i mercati di Venezia, eravamo spesso da quelle parti e durante una passeggiata a Murano, vediamo la vetrina di una vetreria molto curata, che esponeva vasi di vetro che erano davvero molto belli”. Tornati a casa, quei vasi e quell’idea rimangono in testa: “Abbiamo pensato di fare una bottiglia che ricordasse un vaso di Venini, una specie di omaggio a Venezia”. Spinti dall’entusiasmo, i Biasiotto contattano una vetreria della zona, raccontano il loro progetto e vengono accolti in modo entusiasmante: “Ci hanno messo a disposizione parte del personale per creare una bottiglia solo nostra, una forma unica che rispondesse alle nostre esigenze”. E il resto, come si dice, è storia.

Passato e futuro, opposti che si attraggono

Una storia che oggi passa non solo dall’amore per il territorio ma anche dalla sua cura. Passa dalla sostenibilità, che è una cosa che dicono tutti ma che alcuni ha più senso che dicano rispetto ad altri: “Noi viviamo qui, stiamo in mezzo ai vigneti, l’aria che le piante hanno intorno è quella che respiriamo anche noi”, ci ha detto Biasiotto, lasciando appunto intendere che l’azienda è talmente legata al territorio che danneggiarlo sarebbe un danno anche per se stessa. Nel dettaglio, comunque: “Usiamo sistemi di difesa naturali, salubri e non artificiali, oltre il 50% dell’energia che usiamo è autoprodotta, i lieviti sono fatti da noi, il vetro è tutto riciclato, così come il cartone e la carta per le etichette”. E per produrre il vino “non ci affidiamo a sistemi chimici ma ci facciamo aiutare dal freddo naturale e dalle centrifughe per tenere le temperature giuste”. Insomma: “Siamo vegani e non lo sapevamo”, come ci hanno risposto sorridendo quando gli abbiamo fatto notare una caratteristica che più o meno tutti i produttori di vino hanno, magari senza nemmeno saperlo.

Quello che Foss Marai ha in più, e che ci sembra essere emerso durante la nostra chiacchierata con la famiglia Biasiotto, è una sorta di dualismo, un mix fra passato e futuro che funziona: “Siamo lenti nella produzione ma veloci nel muoverci sul mercato, nel provare nuove cose, nuove idee, nuovi prodotti, siamo sempre in movimento”, ci ha fatto notare il direttore commerciale dell’azienda. A dimostrarlo c’è il fatto che “è in arrivo una nuova etichetta di vino” (su cui ancora non si può svelare nulla) e ci sono le novità presentate negli ultimi 2-3 anni: il Marai de Marai Ultrabrut svelato in occasione dell’ultimo Vinitaly e lo spumante Tilio Dosaggio Zero, creato nel periodo Covid, “un’azione di fiducia e di coraggio che ha funzionato bene nonostante il momento non facile”.

Quanto al futuro, a dove andrà il mercato e all’eterna lotta fra Valdobbiadene e Franciacorta, Biasiotto (Andrea) non ha voluto sbilanciarsi su chi vincerà: “I territori fanno la differenza, le uve fanno la differenza, ma anche la mano di chi le lavora la fa, tant’è che dalla stessa materia prima possono uscire vini anche parecchio diversi”. Quel che è certo è che la valutazione finale spetta ovviamente ai consumatori: “In fondo è una questione di gusti”, ci hanno ricordato da Foss Marai, secondo cui comunque “andranno sempre più forte i vini poco alcolici, fruttati, facili ma con personalità, piacevoli e che si lascino bere”. Vini accoglienti, e che se stanno in una bottiglia bella è pure meglio.

Emanuele Capone

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