Quelli che sanno bene di terre di Piedmont, sapranno spiegare le sfumature, gli antefatti e le postfazioni di Dogliani, la denominazione, e delle uve Dolcetto con cui si fa quel vino.
Noi qui che ci interessa di berlo, lo versiamo nel bicchiere e lo godiamo gloglottare. Macchiare leggermente il vetro. Risalire con grazia e pigrizia le verticali, senza indulgere in drappeggi. Lo ascoltiamo pregno di possanze, il frutto non domo, lo spirito furioso, i toni ispidi della terra e del cuoio, e di molte altre cose scure e serie.
Poi lo beviamo, e restiamo irretiti dai tannini, prodighi ma non smisurati. Restiamo appesi all'alcool potente, che ci trascina verso il termine, non di fretta: ma senza esitazioni. Chiudiamo la bevuta con il garbo austero dei profili delle colline di San Fereolo, cui il Dolcetto reca voto, ogni anno, di tornare.
Il bicchiere si svuota, e la mano corre alla bottiglia: che 14.5° rilucano di brillanze nervose resta un miracolino piccolo.
