Chkhaveri - Gaioz Sopromadze 2011

Hai nel bicchiere cinque, seimila anni di storia. Cerchi di capire come si pronunzia Chkhaveri, uno dei polentamila vitigni autoctoni georgiani. Rinunci e fai un'operazione di alta astrazione intellettuale: bevi un vino e non la sua etichetta, di cui non potrai mai capire un'acca.

E' rosso, senza essere nero. Ha un colore intensamente sanguinoso, ma non sprofonda in abissi blu: anzi, resta allegramente aggrappato ad un'acqua bella splendente di rubino gaio e vivo. Poca materia, alla lunga dei suoi 11 gradi. Emmezzo. Un Borgogna paleolitico? Forse.

Nel bicchiere c'è tutto il frutto, dolce e accogliente: solo se lo dimentichi a lungo appare una traccia acida sbifida e volatile. Sotto c'è l'inchiostro di seppia e il sacco di iuta, in fila per due. Tutt'altro che morbido, ma - per dire - gentile. Durevole.

L'assaggio arriva ad occupare il palato tutto d'un tratto, di colpo. Felice: ricordi i momenti del mosto e quasi ti vien di controllare il millesimo, ed è proprio quello: eppure i tre anni non cubano su questo sorso che pare senza tempo. Dolcezze e agritudini che si tengono per mano fino all'uscita, uno schiocco d'elastico, slacciata in avanti.

Per pochi, purtroppo.